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Il match più importante

L’hockeista Mark Cullen 12 anni fa ha vinto il tumore - Cully´s Kids Fond

Ci pensa spesso. Soprattutto quando, dopo una partita di hockey, il suo braccio sinistro si gonfia. Mark Cullen, del Minnesota, è giocatore professionista dal 2002. In questa stagione gioca nell'Hockey Club Bolzano. Nel 2003 pensava che tutto fosse finito: aveva una forma molto aggressiva di melanoma.
Mark Cullen è un solare ragazzo americano: riccioli castano- rossicci, luminosi occhi azzurri, un sorriso aperto. Quando è sul ghiaccio con i suoi bambini, torna a essere un ragazzino. Ha tre figli: Max di 6 anni, Will di 4 e una bambina, Ryane, che ha tre anni. "La famiglia per me è una grossa fortuna. Apprezzo ogni giorno che posso passare con loro". Dodici anni fa non era affatto scontato che andasse a finire così bene. A 24 anni si è ammalato di cancro, ma tre mesi dopo era già di nuovo sul ghiaccio.
Ha scoperto per caso di avere il cancro, durante il summercamp della lega professionistica americana più importante, la NHL. Mark, dopo il college, ha giocato un anno negli Houston Aeros, nel campionato americano di AHL. Poi l’invito al ritiro estivo dei “fratelli maggiori” di NHL, il sogno di ogni bambino che giochi ad hockey, in qualsiasi parte del globo. Una macchia nera sulla schiena aveva fatto temere il peggio al medico della squadra. Gli hanno rimosso una sezione di cute dalla grandezza di un disco da hockey. La biopsia ha confermato un cancro maligno alla pelle, al terzo stadio: aveva solo il 30% di possibilità di sopravvivere. Dato che anche uno dei due linfonodi sentinelle (Sentinel-Lymph-Node) levato da sotto il braccio sinistro, era positivo, a Mark hanno esportato tutti e 15 i linfonodi del braccio. La cicatrice si estende dal centro del braccio al centro dell'arco costale.
"Non ho avuto bisogno di fare chemioterapia, né radioterapia - ricorda Mark. -E così, dopo sole tre settimane dall’intervento, ho potuto di nuovo scendere sul ghiaccio."
“Ero terrorizzato, ma anche pieno di speranza – ricorda l’hockeista - Giocare a hockey è stata la migliore terapia per non pensare al cancro". Ogni mese doveva farsi controllare per il rischio di metastasi. Poi, dopo sei mesi, i controlli sono diventati trimestrali e dopo un anno bimestrali. Ancora oggi fa i controlli una volta all'anno.
Negli Stati Uniti, nei giovani uomini tra i 24 e i 34 anni, si conta che i melanomi siano presenti 4 volte in più rispetto alle altre forme di tumore.
Mark Cullen è uscito in modo positivo dall'esperienza del cancro. "Anche se il fantasma della malattia è sempre presente. Sono cosciente che può tornare, le cellule tumorali possono rimanere quiescenti e tornare attive in qualsiasi momento". Ma, ciò nonostante, non si demoralizza. Anzi, vive la sua vita con la consapevolezza di dover godere di ogni giorno. È felice di aver avuto tre bambini sani da Jayme, la donna che gli è stata vicina già durante la malattia e che oggi è sua moglie. E’ felice di fare il giocatore di hockey professionista, sport che lo appassiona e che è una tradizione di famiglia. Anche i suoi due fratelli, Matt e Joe, sono giocatori professionisti e il padre Terry giocava a hockey con i suoi tre ragazzi nel garage di casa. "Penso, attraverso questa esperienza, di vivere una vita migliore: sono cosciente della mia fortuna e del mio successo e riesco ad apprezzare le piccole cose di tutti i giorni", dice oggi Mark Cullen.
In estate, con la sua pelle chiara, Mark deve fare particolare attenzione. Non deve prendere i raggi diretti del sole e deve usare sempre creme solari con altissimo fattore di protezione.
Sensibilizzato dalla malattia di Mark e segnato dall’amicizia con un bambino di otto anni malato di cancro, durante la sua unica stagione in Italia nel 2004, nelle fila del Cortina, il fratello maggiore, Matt, giocatore di successo in NHL, insieme alla moglie Bridget, ha fondato la "Cullen Children´s Foundation – Cully´s Kids“, per aiutare i bambini malati di cancro. Alla fine del campionato, anche Mark collabora attivamente con il fondo. Ogni terzo weekend di luglio, i due fratelli organizzano il "Cully's Kids Celebrity", un torneo di golf, con tanto di picnic e giochi per i bambini nella loro città del Minnesota, Moorhead. Questo fondo ha raccolto, nel mese di luglio 2014, più di un milione di dollari durante le celebrazioni del decennale, anche grazie alla presenza di numerosi vip. I proventi sono stati distribuiti a singole persone, a famiglie, ma anche a progetti e a ospedali.
Sono quattro stagioni che Mark gioca in Europa: un anno in Polonia, due a Salisburgo e adesso a Bolzano. Vorrebbe giocare per altre due stagioni, poi Mark, che adesso ha 36 anni, pensa di ritirarsi dallo sport attivo e tornare negli Stati Uniti. Rimarrà fedele all'hockey, come allenatore o manager. Dopo tutto ha in tasca anche una laurea in economia.
Lo danneggia nella sua carriera sportiva la mancanza dei linfonodi? "Nel gioco no, ma dopo la partita mi si gonfia il braccio sinistro" dice. "L'hockey è un gioco duro, che comporta un grosso sforzo fisico, quello che in gergo si chiama "Bodychecking"è all'ordine del giorno". Ciò nonostante la sua carriera è stata piena di successi: per due stagioni, nel 2005 e 2006, ha calcato anche il ghiaccio della NHL, il campionato di hockey più importante del mondo.
Ho letto per caso della malattia di Mark Cullen e gli ho scritto una mail chiedendogli se si sarebbe fatto intervistare. Mi ha subito risposto di sì. Mark vorrebbe, attraverso il suo esempio, dare un messaggio positivo a tutti coloro che devono fare i conti con il melanoma o con qualsiasi forma di cancro. Vuole fare coraggio attraverso il suo esempio e dimostrare che anche dopo il cancro tutto è possibile, nello sport, nella vita e nel lavoro. nd

Mark CullenMark Cullen


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La mia vita

La lettera di congedo del famoso neurologo britannico Oliver Sacks

Oliver SacksOliver Sacks

I tumori della pelle in generale e anche il melanoma hanno delle ottime prognosi di guarizione se scoperti in fase precoce. Oliver Sacks è stato sfortunato; nove anni dopo la prima diagnosi gli sono state diagnosticate delle metastasi al fegato. In una lettera pubblicata sul New York Times il 19 febbraio scorso e che ha fatto il giro del mondo, l’ottantunenne Sacks esprime la sua profonda gratitudine per una vita riuscita.
Oliver Sacks, neurologo britannico è conosciuto in tutto il mondo come autore di numerosi bestseller con i quali ha svelato in modo semplice molti misteri del cervello umano, facendo riferimento spesso ad alcuni comportamenti insoliti, dovuti ad altrettante insolite condizioni o patologie. Del 1973 è il suo primo libro „Risvegli“ sulla malattia del sonno, dal quale nel 1990 è stato tratto un film con Robert de Niro e Robin Williams. Altro titolo famoso di Sacks è “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello“. I suoi libri sono stati tradotti in 25 lingue.
Dalla sua lettera traspaiono gratitudine e pace interiore, Sacks riesce ad affrontare questa situazione non tanto con rassegnazione quanto piuttosto con saggezza e pacatezza.
“Un mese fa mi sentivo in buona salute. A 81 anni, nuotavo ancora tutti i giorni. Ma la mia fortuna si è esaurita: un paio di settimane fa ho scoperto di avere metastasi multiple al fegato. Nove anni fa avevo avuto una rara forma di tumore dell'occhio, un melanoma oculare. La radioterapia e il laser mi hanno tolto il tumore, anche se come conseguenza ho perso l’uso di quell’occhio. Si tratta di una forma tumorale di solito poco aggressiva, ma io faccio parte dello sfortunato due per cento dei casi in cui la malattia si diffonde sviluppando delle metastasi. Sono grato che dal momento della diagnosi del melanoma mi siano stati concessi ancora nove anni di vita in buona salute e piene di lavoro e di successo, ora il cancro si sta diffondendo dentro il mio organismo; può darsi che il suo avanzare possa essere ritardato, ma è sicuro che non ci sarà guarigione. Devo affrontare la morte.

Adesso è mio compito decidere come vivere il tempo che mi resta. Ho deciso che vorrei viverlo nel modo più ricco, profondo e produttivo possibile. Il mio esempio è David Hume, uno dei miei filosofi preferiti. Quando egli nel mese di aprile del 1776 all’età di 65 anni seppe che non aveva più tanto tempo a disposizione, ha scritto in un unico giorno la storia della sua vita.
“La mia malattia non mi sta causando troppa sofferenza e posso dire che malgrado la mia veloce decadenza fisica non ho vissuto neanche un attimo di paura o di disperazione. Seguo con la stessa passione di sempre i miei studi, e in compagnia sono allegro come sempre“, scrive Hume nel 1776.
Ho avuto la fortuna di poter vivere più di ottant’anni e ho potuto riempire di lavoro e di amore i quindici anni che ho in più di Hume. Ho pubblicato cinque libri, ho terminato la mia autobiografia …e ho ancora dei progetti di lavoro che sto per concludere.

Una frase di Hume mi ha toccato in particolar modo, perché esprime esattamente quanto sento io: “Non è possibile essere più legati alla vita più di quello che sono io in questo momento.”

Mi sento intensamente vivo, più vivo che mai e io voglio e spero nel tempo che mi rimane, di riuscire ad approfondire le mie amicizie, di poter dire addio a coloro che amo, di scrivere di più, di viaggiare se ne avrò la forza, di raggiungere nuovi livelli di comprensione e intuizione. Sarò coraggioso, trasparente e aperto e mi sentirò ancora più legato al mondo. Mi divertirò e – perché no – mi concederò anche del tempo per delle pazzie.
E‘ come se tutto d’un colpo mi si siano schiarite le idee, non ho più dubbi. Non ho più del tempo da buttare o da occupare con cose inutili. Mi concentrerò sulle cose essenziali, sulle persone che amo e che sono importanti per me. Smetterò di guardare i telegiornali e di seguire dibattiti di politica o sul riscaldamento globale.
Non è indifferenza, ma distacco: Certo che mi importa ancora tantissimo della crisi nel Medio Oriente, del cambiamento del clima e della crescita delle diseguaglianze sociali, ma queste cose non mi riguardano più: appartengono al futuro. Mi riempie di gioia incontrare delle persone giovani e capaci … ho la sensazione rassicurante che il futuro sia in buone mani.
Nell’ultimo decennio la morte è stata comunque una presenza costante nella mia vita. Il tempo della mia generazione sta per esaudirsi e ho vissuto ogni morte nella mia cerchia di conoscenze di amicizie come una perdità insostituibile …Quando uno di noi se ne va, rimane un vuoto incolmabile, nessuno è uguale all’altro; non si può sostituire le persone. Mai. E‘ il nostro destino genetico e neurologico di essere unici, ognuno deve trovare la sua strada, vivere la sua vita e vivere la sua morte.
Non posso fingere di non avere paura. Ma il mio sentimento predominante è la gratitudine. Ho amato e sono stato amato; mi è stato dato molto, e ho dato qualcosa in cambio; ho letto, viaggiato, pensato, scritto. Ho avuto una relazione intensa con il mondo [...] ma sopra ogni altra cosa, sono stato un essere senziente, un animale pensante su questo splendido pianeta: e questo è stato un enorme privilegio e un’ immensa avventura.