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Ho fatto della buona medicina pubblica

Giulio Donazzan, primario di pneumologia, va in pensione dopo 40 anni
Tra degenti, day hospital e terapia sub-intensiva respiratoria il reparto di pneumologia conta 25 letti.
Il 28 novembre 2017 sono passati esattamente quarant’anni da quando Giulio Donazzan, il 28 novembre 1977 ha iniziato a lavorare in pneumologia all’ospedale di Bolzano, uno dei reparti che hanno avuto negli ultimi decenni uno sviluppo particolare soprattutto per quanto riguarda l’aspetto tecnologico.
Il primario Dott. Giulio Donazzan
È uno dei nove primari che durante il 2017 hanno finito il loro ciclo lavorativo e i lor o reparti si sommano ad altri otto reparti che sono già da diversi anni guidati da facenti funzione, perché i primari sono andati in pensione o partiti per un altro ospedale.
Chance: Come ci si sente di fronte a poche settimane che rimangono ancora da lavorare?
Dott. Donazzan: Molto bene, soprattutto perché al momento sto esaurendo le ferie. Poi mi rimangono ancora da chiudere delle faccende nel reparto, devo vedere cosa manca per poter andare in pensione, ho da preparare un ultimo convegno in veste da primario e poi lascio le consegne.
Chance: Ma non lascerà del tutto la medicina?
Dott. Donazzan: No, mi dedicherò un po’ all’attività privata, certamente con meno ansia e meno burocrazia, avrò spazio per il volontariato e poi potrò dedicarmi a cose per le quali fino adesso non avevo tempo, per esempio viaggiare.
Chance: Lei ha sempre lavorato all’ospedale di Bolzano, a parte degli stage in Italia e all’estero.
Dott. Donazzan: Sì, e mi ritengo un ragazzo fortunato! Sono riuscito a fare della buona medicina pubblica. È stata una mia scelta che non ho mai rimpianto. Mio padre era un medico privato. E non solo, ho potuto assistere ad un’importante evoluzione tecnologica, sono riuscito ad arrivare a capo di un reparto e ho potuto occuparmi di un ambito che mi ha molto affascinato.
Chance: Pneumologia non è però stata la sua prima scelta.
Dott. Donazzan: No, infatti mi sono specializzato anche in medicina del lavoro e in medicina dello sport. Ho studiato a Padova e in quegli anni la medicina del lavoro aveva un occhio sulle funzionalità del polmone, come del resto anche la medicina dello sport e così mi sono specializzato in tutti e tre gli ambiti, alla fine ho scelto pneumologia, perché ho preferito il canale clinico per stare in contatto con il paziente.
Chance: Cosa conta nel contatto con il paziente?
Dott. Donazzan: Comunicare in maniera corretta, di modo che i contenuti siano comprensibili e compresi da chi ti sta ascoltando. È importante perché così il paziente acquisisce fiducia nel medico e si sente in buone mani. Certo non è facile comunicare a qualcuno che ha una neoplasia del polmone, spesso è una notizia che viene percepita come una sentenza di morte. Va sempre affrontato con tutta la famiglia, con una persona vicina al paziente, bisogna far comprendere tutto e lasciare lo stesso sempre uno spiraglio di speranza. Comunque, il mio reparto è dopo la rianimazione e la geriatria il reparto con il numero più alto di decessi. Anche se questi sono scesi, da quando hanno creato il reparto di cure palliative.
Chance: E come si riesce a far fronte a questo? Si porta a casa questi pensieri?
Dott. Donazzan: No a casa non li porto, anche se ti seguono, una certa tristezza a volte non è da escludere. Ho sempre trovato molto utile il fatto che vado e torno in bicicletta (d)al lavoro. È un momento di pulizia della mente! Un passaggio da una realtà all’altra. Quello che mi porto a casa invece è la consapevolezza di essere fortunato perché sono sano. Due su tre di noi prima o poi incontreranno un tumore nella loro vita.
Chance: Il suo reparto è una realtà molto complessa con 18 posti letto, 7 posti letti di sub-intensiva respiratoria e con una serie di attività ambulatoriali molto tecniche che si è evoluto molto da quando lei ne ha preso le redini.
Dott. Donazzan: Il lavoro è cambiato molto in questi anni. A parte l’evoluzione tecnica e a parte i successi della ricerca che hanno portato – adesso parlo soprattutto dell’ambito delle malattie tumorali - a delle terapie individualizzate e molto più complesse, si sono aggiunte anche la chirurgia vasco-toracica, prima i nostri pazienti dovevano andare a Verona. E lo stesso per la radioterapia i nostri pazienti non devono più recarsi all’ospedale Borgo Trento a Verona. Adesso possiamo mandare i nostri pazienti al reparto di radioterapia della Clinica Bonvicini e già dal 1987 il mio reparto aveva un gruppo interdisciplinare, molto prima quindi del vero e proprio tumorboard pneumologico, istituito nel 2008, che si riunisce ogni mercoledì pomeriggio. Siamo stati dei percursori dell’interdisciplinarietà!
Chance: Solo una parte dei pazienti in pneumologia è oncologica. Ma c’è una cosa che tanti dei suoi pazienti hanno in comune: i problemi che hanno, sia di natura respiratoria sia tumorali, sono causati spesso dallo stesso fattore, dal fumo. Da medico come si vive questo fattore?
Dott. Donazzan: Non ha nessuna importanza. Certo, il fumo fa male, anche il fumo passivo, e bisogna aiutare i pazienti a smettere, ma non c’è nessun giudizio sulle scelte delle persone, nessun giudizio morale. Non deve esserci mai e su nessun tipo di paziente. Quello che c’è invece, è un forte coinvolgimento psicologico nel paziente che ci dà la sua fiducia, sia quello con una neoplasia, sia quello con una grave insufficienza respiratoria. Gli stiamo accanto.
Chance: Dicevamo che il suo reparto è una realtà altamente tecnica.
Dott. Donazzan: Si abbiamo avuto davvero dei cambiamenti importantissimi negli ultimi anni. Una volta avevamo un broncoscopio, non c’era la TAC. Oggi lavoriamo con dieci broncoscopi, facciamo la toracoscopia, non c’è soltanto la TAC ma anche la PET TAC, la tomografia ad emissione di positroni. Questo per quanto riguarda la diagnosi. Ma anche per la terapia è cambiato tutto. Le tecniche chirurgiche nei tumori polmonari sono più evolute e quando il tumore non è operabile abbiamo l’arma efficace della radioterapia stereotassica. E poi ci sono tutte le prestazioni ambulatoriali rivolte alle fisiopatologie respiratorie, asma, allergie ecc.
Chance: Un campo davvero molto complesso …
Dott. Donazzan: Si, è molto entusiasmante. Io rifarei medicina se dovessi ancora scegliere, è una professione fortunata. E sceglierei lo stesso ambito. Certo bisogna avere interesse per quello che si fa e bisogna avere interesse per la vita!
(L’intervista è stata realizzata all’inizio di ottobre)

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Un filosofo in camice bianco

Intervista con il Dott. Claudio Graiff, primario uscente di oncologia
È stato il primo primario del nuovo reparto di oncologia a Bolzano, creato nel 1999 dall’allora medicina 2. Claudio Graiff, nato nel 1954 a Bolzano, laureato nel 1979 a Pavia, tre specializzazioni in oncologia, ematologia e radioterapia. Il 25 settembre è stato il suo ultimo giorno in reparto, e guarda caso coincideva con un concerto dei donatori di musica.
Primario Dott. Claudio Graiff
Il dottor Graiff è un medico con l’anima di un filosofo. E questo approccio ha determinato la sua umanità nel rapporto con i pazienti, ma anche con i colleghi e i collaboratori.
Chance: Dottor Graiff, oggi (il 25 settembre, n. d. red.) è il suo ultimo giorno in reparto. Dopo tanti anni in prima linea, alle prese con una malattia che è percepita come il male assoluto, un ambito che negli ultimi venti - trent’anni ha subito dei cambiamenti radicali. Nuove tecniche, nuove cure, nuove ricerche che comportano l’essere sempre aggiornati senza perdere poi di vista la cosa più importante, il rapporto con il paziente. Cosa farà da domani, una persona che è all’apice della sua competenza?
Dott. Graiff: Non si preoccupi, non è che da domani non ho più niente da fare. Mi rimangono ancora tante cose da fare. Pratiche burocratiche da finire. Sono ancora membro di diverse commissioni, del comitato etico, collaboro con riviste scientifiche… Continuerò con la mia attività di ricerca. Porto avanti il progetto “Donatori di Musica” a me molto caro, proseguirò con altre attività no profit e poi – non escludo di trovare un altro spazio, magari chiudo una porta e se ne apre un’altra.
Chance: A proposito dei “Donatori di Musica”, progetto di cui è cofondatore, partito nel 2007 e insignito del premio Alexander Langer. Come le è venuta l’idea di trasformare la sala d’attesa del suo reparto in sala da concerto?
Dott. Graiff: L’idea è nata da una chiacchierata con un collega di Carrara, il Dott. Maurizio Cantore. Lo scopo va molto al di là di un mero evento culturale, si tratta di ritrovare una diversa dimensione nel vissuto della malattia per chi ne è colpito o chi se ne occupa professionalmente e che partecipa senza indossare un camice. Di portare in questa comunità artificiale – mai scelta da chi la frequenta, ma imposta da necessità – non solo la bellezza dell’Arte, ma anche uno stimolo alla riflessione, la quale, attraverso l’emozione dell’ascolto e la condivisione del linguaggio universale della Musica eseguita da grandi interpreti, riesce a liberare e promuovere l’umanità di ciascuno, sia egli ammalato, familiare, volontario, operatore sanitario, o anche amministratore di sistemi sanitari.
“Donatori di Musica”: La musica unisce i pazienti, il personale del reparto e i famigliari. La sala d’attesa diventa auditorium.
Chance: Si occupa dalla metà degli anni settanta di oncologia. Se guarda indietro, quali sono stati i cambiamenti più importanti?
Dott. Graiff: Certo, bisogna dire che tutto è diventato tremendamente più complicato! È cambiata la complessità della gestione. Oggi bisogna saper distinguere, bisogna saper scegliere tra le vaste possibilità la terapia o le terapie più adatte al singolo paziente. Ci sono stati dei fondamentali cambiamenti nell’approccio al paziente. Negli anni settanta l’ammalato è stato perso di vista, si lavorava solo sull’organismo. Io sono stato sempre scettico verso questa visione. Il nostro corpo è un composito, non si può distinguere tra anima, mente e corpo. Poi il malato è stato messo al centro e così è stato passivizzato. Tutto ruotava attorno a lui, ma lui era completamente estromesso.
Chance: L’ideale sta nel mezzo …
Dott. Graiff: Esatto. Al centro deve stare la costruzione di una relazione, di un percorso, che è sempre un percorso condiviso. Un’alleanza. Per curare questa malattia ci vogliono l’eccellenza clinica, ci vuole il professionista disposto ad ascoltare il malato e le sue esigenze e il malato che partecipa con responsabilità. Un medico poi non deve essere solo “un tecnico”, per fare il medico ci vuole una vasta cultura classica, occorre conoscere la filosofia, la letteratura, lo sviluppo del pensiero, scienze e arte…
Chance: Secondo lei cos’è fondamentale nel rapporto tra medico e paziente?
Dott. Graiff: La vicinanza umana, l’onestà. È un rapporto paritetico, solo asimmetrico per conoscenze. L’empatia vera è quando si riesce a dire no e il malato capisce.
Chance: L’oncologia clinica l’ha fatta la sua generazione e lei è stato il primo primario di questo reparto creato ex nuovo da medicina 2.
Dott. Graiff: Sì, posso dire che ho seguito e gestito dal nascere non solo questo reparto ma anche l’oncologia moderna. Abbiamo collaborato per trovare nuove vie. Siamo entrati con il nostro team in uno dei gruppi più importanti a livello internazionale, ciò che abbiamo fatto, che abbiamo potuto sviluppare assieme a loro appare in scritti che hanno fatto la storia dell’oncologia.
Chance: Quindi avete potuto svolgere anche delle ricerche importanti?
Dott. Graiff: Oggi la ricerca è diventata spesso la prova di prodotti, mentre la vera ricerca è la prova di ipotesi. Noi abbiamo sempre preferito partecipare a studi indipendenti piuttosto che a quelli organizzati dall’industria farmaceutica. Ci siamo tenuti lontani dall’ultima moda, dai “me too”. La ricerca non può essere prova il Dash contro il Dixan. Il marketing non deve entrare nella ricerca.
Chance: Si ricorda quando è nato in lei il desiderio di far medicina?
Dott. Graiff: Mi viene in mente una mia foto, quando ero un bambino di 3 o 4 anni e andavo all’asilo in Viale Venezia a Bolzano: sono vestito da medico e ausculto un bambino con uno stetoscopio di plastica.
Chance: …e la decisione per l’oncologia?
Dott. Graiff: Al secondo anno di medicina sono capitato in un laboratorio dove si faceva ricerca e mi piaceva. Mi sono cercato un reparto clinico e mi sono innamorato di questa materia. Ho cercato di farlo come persona seria e ricordandomi sempre che accanto alla mente ognuno ha un cuore.
Chance: E non l’è mai pesato lavorare in un campo così difficile, anche sotto l’aspetto psicologico e umano.
Dott. Graiff: No, credo che la mia forte motivazione e il mio bagaglio culturale mi hanno sempre aiutato a trovare il mio equilibrio.
Chance: Cosa si porta via da tutti questi anni in oncologia?
Dott. Graiff: Ho conosciuto tantissime persone e i loro drammi, e molti di loro li incontro ancora! Li rendevo aperti all’accoglienza, mi sentivo accolto da loro e li accoglievo. Mi rimangono trattamenti particolarmente riusciti, il ricordo di formidabili occasioni di conoscenze su etica e responsabilità.
Chance: Cosa potrebbe essere un’immagine per la sua professione.
Dott. Claudio Graiff: Noi siamo in trincea ogni giorno.